Il buio della notte
Facciamo un volo di fantasia. Immaginiamo di muoverci lungo una linea retta attraverso pianeti, stelle, galassie e oltre. Dove andremo a finire? Ci sono, logicamente, solo tre possibilità.
La prima: alla fine ci troveremmo in uno spazio vuoto infinito, senza stelle e galassie. Ciò vorrà dire che il nostro universo non è nient’altro che una piccola oasi in un deserto infinito di spazio vuoto. La seconda: potremmo andare avanti sempre più, incontrando sempre nuove stelle e nuove galassie.
In tal caso l’universo sarebbe costituito da un numero infinito di stelle e galassie immerse in uno spazio infinito.
La terza: dopo aver fatto un lungo percorso, ci ritroveremmo al punto di partenza. Concluderemmo, allora, che l’universo è una riproduzione su grande scala del nostro pianeta, e noi avremmo nient’altro che compiuto un giro intorno al mondo.
L’ultima possibilità è, senza ombra di dubbio, la più fantasiosa, per cui vale la pena concentrarsi sulle altre due alternative.
Se l’universo fosse costituito da un numero finito di stelle immerse in uno spazio vuoto infinito, allora la sua evoluzione sarebbe ben delineata. O tutte le stelle - o prima o poi - condenserebbero in un’unica grande massa sotto l’azione della forza di gravità (come avviene, appunto, per le polveri interstellari che condensano a formare una stella), oppure le stelle e la luce da loro emessa si dissiperebbero nello spazio vuoto infinito, senza più possibilità alcuna di essere intercettate da alcun oggetto (inclusi i nostri “occhi”). Per tali motivi, la seconda alternativa – quella di un universo costituito da un numero infinito di stelle in uno spazio infinito – è stata da sempre considerata l’ipotesi più ragionevole, e con le conquiste osservative dello scorso secolo sappiamo ora addirittura che le stelle popolano il nostro universo; ossia, su grande scala, non ci sono regioni di spazio in cui si ammassano più stelle che in altre regioni. Questo, però, pone un paradosso molto serio, già considerato da Keplero nel XVII secolo, e poi ripreso successivamente da altri scienziati, la cui soluzione definitiva ha dovuto attendere gli ultimi decenni dello scorso secolo. Se l’universo è infinito e popolato uniformemente con stelle luminose che esistono da sempre, perché mai il cielo di notte è buio?
Il problema è serio poiché, contrariamente a ciò che può immaginarsi, le stelle più lontane contribuiscono di più alla luminosità totale che non quelle vicine. Infatti, se è ovvio che la luminosità di una sorgente luminosa si affievolisce con la distanza, è altrettanto vero che un volume maggiore di spazio contiene più stelle. Ora, per ragioni puramente geometriche, se per esempio si triplica la distanza, il volume dello spazio corrispondente diviene 27 volte più grande (in un cubo di lato 3 cm, vi sono 27 cubetti di lato 1 cm), mentre la luce si affievolisce solo di 9 volte (la luce che illumina un certo quadrato alla distanza di 1 cm, deve illuminare una superficie grande quanto 9 quadratini alla distanza di 3 cm). Ciò implica, allora, che sorgenti stellari distanti predominano in luminosità, e la luce proveniente dalle infinite stelle dovrebbe essere enorme, rendendo la notte (e anche il giorno) luminosissima!
Per comprendere come ciò possa avvenire, si può ricorrere ad un semplice esempio. Immaginiamo di trovarci in una grande foresta, con alberi sparsi un po’ dappertutto. Se guardiamo in lontananza attraverso la foresta, anche se gli alberi sono piantati molto sporadicamente, e riusciamo a vedere lo spazio vuoto tra un albero e un altro vicino a noi, all’orizzonte la foresta ci apparirà completamente piena dei tronchi degli alberi, purché essa sia sufficientemente grande. Analogamente, in cielo non dovremmo osservare un singolo punto senza una stella, ma ciò non è evidentemente vero. Come è allora possibile risolvere tale paradosso, direttamente collegato alla finitezza del nostro universo?
La soluzione immaginata da Keplero, per esempio, fu quella di ammettere che l’universo fosse finito: ovvero, nell’esempio di sopra, la foresta non è sufficientemente grande, e all’orizzonte si intravede il muto di cinta buio che, nell’analogia, rappresenta lo spazio vuoto infinito della prima alternativa sopra. La soluzione avanzata dal nobiluomo svizzero de Cheseaux nel 1746, poi ripresa da Olbers (da cui il nome di “paradosso di Olbers”), invece, non rinunzia alla infinitezza dell’universo, ma ammette che la luce delle stelle lontane sia assorbita dal mezzo interstellare (che non è vuoto). Sebbene attraente, tale ipotesi non risolve affatto il problema poiché, pur ammettendo che ciò avvenga, il mezzo interstellare che assorbe la luce si riscalderebbe (come un secchio d’acqua – magari colorata di nero – lasciato esposto ai raggi solari), ed emetterebbe, quindi, l’energia assorbita nuovamente sotto forma di radiazione. Oggi sappiamo, da dati osservativi, che il nostro universo ha avuto origine da un evento catastrofico, un big bang, avvenuto circa 14 miliardi di anni fa, al tempo in cui tutta la sua energia che ora osserviamo era concentrata all’incirca in un solo punto. Dopo tale esplosione, l’universo ha continuato ad espandersi fino ad oggi, come si espande un palloncino pieno d’aria, e le stelle e le galassie in esso contenute si allontanano gradualmente le une dalle altre (proprio come due punti segnati sul palloncino), e quindi anche dal nostro punto di osservazione. Ora, l’espansione dell’universo implica che il volume dello spazio interstellare aumenta, per cui avviene una diluizione della luce stellare che raggiunge i nostri occhi. Fin dagli albori del nostro universo, quindi, vi sono stati due processi competitivi che riguardano il nostro problema: da un lato le stelle tendono ad illuminare l’universo, mentre dall’altro l’effetto dell’espansione è quello di affievolire tale luce.
Ciò, però, non è l’unico ingrediente che risolve il paradosso di Olbers, e un ruolo fondamentale è giocato dall’età dell’universo. L’età finita dell’universo interviene in due modi complementari. Da un lato essa limita il tempo durante il quale le stelle emettono luce nello spazio interstellare, che evidentemente influisce sull’oscurità del cielo notturno così come visto da Terra. Dall’altro, poiché la luce impiega un tempo finito per attraversare una certa distanza (in un secondo essa riesce a percorrere 300.000 km), noi possiamo osservare solo la luce proveniente da una certa porzione del nostro universo, l’estensione di tale porzione dipendendo dal processo di espansione e quindi dall’età dell’universo. Dunque, sebbene la risoluzione del paradosso di Olbers richieda la considerazione di diversi aspetti di natura astrofisica, due di questi sono quelli fondamentali: l’età e l’espansione dell’universo. Per fortuna, però, nella nostra epoca l’espansione dell’universo contribuisce all’oscurità del cielo notturno solo per circa il 40%, non privandoci così del tutto del meraviglioso spettacolo celeste. Poiché le stelle si allontanano sempre più tra di loro e rispetto a noi, verrà un giorno in cui non riusciremmo a vedere più la loro luce. Ma, per fortuna, nessun uomo sarà testimone di questa insopportabile solitudine.
S. Esposito, fisico
Per ulteriori informazioni (in inglese): E. Harrison, Cosmology, The Science of the Universe, Cambridge University Press, 2000, 2 ed.P.S. Wesson, Journal of the British Astronomical Association, vol. 99 (1989) p.10-13